Al Meeting degli Anestesisti Rianimatori, il punto sul Biotestamento
Al focus hanno partecipato Amato De Monte, Beppino Englaro e Maria Antonietta Farina Coscioni
L’approvazione della Legge 219/2017 sul Biotestamento ha rappresentato un importante passo avanti a livello normativo per regolamentare un ambito delicato come il fine vita, ambito in cui gli Anestesisti Rianimatori sono i Medici senza dubbio maggiormente coinvolti e sempre in prima linea nel rapporto con i pazienti e i familiari.
Sull’argomento si è fatto il punto nel corso di SAQURE, il Meeting organizzato dall’AAROI-EMAC che si è chiuso oggi a Roma.
“Si tratta di una tematica fondamentale per gli Anestesisti Rianimatori che quotidianamente, ben prima della Legge sul Biotestamento, si occupano del fine vita – ha affermato Franco Marinangeli, Presidente del Meeting -. La Legge è un passo in avanti perché stabilisce dei prìncipi chiari e fissa i confini tra il trattamento palliativo (che significa protezione del paziente nei confronti della sofferenza, sia fisica che morale, psicologica o sociale) e l’astensione dall’accanimento terapeutico da un lato e qualsiasi azione finalizzata ad abbreviare la vita dall’altro, due piani che si pongono agli opposti estremi dal punto di vista sia legale che etico.
L’accanimento terapeutico, ad esempio, è un vero e proprio nemico nei confronti del paziente perché è tale quando non c’è speranza di cura e ha l’unico effetto di allungare la vita senza per questo migliorarne la qualità. Il vero obiettivo deve essere, invece, l’appropriatezza della cura in funzione del bene del paziente. Ciò non toglie che occorrerà ancora tempo affinché l’applicazione della Legge diventi realmente efficace. Permangono, infatti, situazioni non chiare che possono essere di difficile gestione in assenza della Disposizione Anticipata di Trattamento con possibili ricadute medico legali sulla professione. In questo senso l’AAROI-EMAC intende portare avanti azioni specifiche che favoriscano il miglioramento della comunicazione tra medico e paziente ma anche di confronto tra professionisti della sanità con eventi come questo”.
Nel corso della sessione ci sono stati gli interventi di esperti e testimoni diretti di alcune delle situazioni oggi normate dalla Legge sul Biotestamento, a partire da Beppino Englaro .
“Eluana nel 1980 non aveva ancora 10 anni ma durante un dibattito familiare, ritenendosi non rispettata abbastanza, ci apostrofò e disse “cosa c’entrate voi con la mia vita?” – ha raccontato Beppino Englaro, padre di Eluana -. Aveva già ben definito il concetto di libertà e di dignità. Per il Natale 1991 scrisse una lettera in cui descriveva la sua famiglia come un “nucleo molto forte basato sul rispetto e l’aiuto reciproco. Famiglia salda, calda e affettuosa sulla quale si può sempre contare”. Nel 1992 l’incidente. Noi non c’eravamo. La prima persona a parlare con i medici fu una sua compagna di Liceo. Francesca si è chiesta fin da subito cosa avrebbe voluto Eluana: “no grazie all’offerta terapeutica anche se era la migliore. Considerando il danno, lascia che la morte accada”. Al 4° giorno abbiamo avuto il primo colloquio con il responsabile della rianimazione che ci ha detto che il giorno successivo avrebbero fatto la tracheotomia e non avevano bisogno di nessun consenso. Ma noi eravamo il suo nucleo saldo, caldo e affettuoso. Per cui abbiamo fatto presente: perché non chiedi il nostro consenso? Il medico ha opposto codice deontologico. Io non posso non curare. Punto e basta. Nel 2007 ha risposto la magistratura: avrebbe autorizzato solo se la condizione fosse irreversibile (e lo era) e che i convincimenti culturali, etici e filosofici della ragazza fossero quelli (e lo erano). Eravamo finalmente autorizzati a riprendere il processo del morire di Eluana. La nostra vicenda come quella di Nelson Mandela: per rivendicare uguaglianza tra bianchi e neri finì in galera. Eluana, per rivendicare il diritto di dire “no grazie alle cure” rimase imprigionata nel suo corpo per 6233 giorni, 17 anni e 22giorni. Oggi questo diritto viene garantito dalla legge sul Biotestamento.
A rafforzare la testimonianza di Englaro anche Amato De Monte, Anestesista Rianimatore, Direttore di Dipartimento ad Attività Integrata di Anestesia e Rianimazione dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Udine.
“Il Medico deve porsi nei confronti del paziente in una dimensione olistica, a maggior ragione deve farlo quando si parla di fine vita – ha spiegato Amato De Monte -. Il Medico è una persona, così come il paziente e ha dei doveri che si pongono su diversi piani: culturale, con l’aggiornamento, sociale, attraverso il rispetto delle leggi e della Costituzione, deontologico, attraverso il rispetto del Codice, spirituale e ambientale in linea anche con quanto più volte indicato dalla Chiesa Cattolica sulla necessità che il Medico rispetti la dignità del paziente ed eviti l’accanimento terapeutico. Il punto principale è, infatti, questo il Medico deve esercitare con spirito di servizio, ossia rispettare le scelte del paziente anche quando non sono in linea con le proprie convinzioni. A lui compete la capacità di trasmettere le informazioni in maniera adeguata e di utilizzare le cure in maniera corretta e appropriata. Oggi in Italia esiste una Legge che garantisce l’autodeterminazione del paziente”.
Sempre in tema di autodeterminazione anche l’intervento di Maria Antonietta Farina Coscioni, presidente dell’Istituto Luca Coscioni.
“Oggi più che mai il concetto di salute non è e non deve essere un bene autonomamente tutelato – ha sottolineato Maria Antonietta Farina Coscioni -. La salute non è solo integrità fisica, assenza di malattia ma coinvolge una condizione complessiva di benessere psicofisico del soggetto. Si pensi ad un malato di SLA che riconosce, nel senso che conosce, è pienamente cosciente della degenerazione neuronale che lo ha colpito. Tutti abbiamo un termine ma a chi viene diagnosticata una malattia come la SLA il concetto di terminalità appare immediato e concreto.
Al momento in cui un malato manifesta una volontà di sospendere un trattamento che non viene rispettata, “subisce” un danno di agonia: “dolore provato da colui che è in grado di percepire lucidamente e consapevolmente l’avvicinarsi della fine”. È uno stato mentale e fisico estremo. Dal greco: lotta (battaglia estrema che il corpo mette in atto contro la morte). Chi risarcisce il paziente di questo danno? Di questo tempo di sofferenza che gli è stato procurato?
Le cure palliative mettono in grado le persone che soffrono di malattie gravi o che sono in stato di forte prostrazione di esercitare l’autodeterminazione. L’approccio non è quindi solo basato sulla risposta al bisogno ma contribuisce direttamente a far sì che i diritti umani civili e partecipativi della persona possano essere esercitati fino al momento della morte (Consiglio d’Europa 2009 e articolo 32 della nostra costituzione)”.
Alla sessione hanno partecipato anche esperti in materia di Biotestamento e Bioetica.
“In Italia la gestazione di questa legge è stata lunga. Mentre in quasi tutta Europa le DAT erano riconosciute, da noi, nel silenzio del legislatore, ad aiutare il medico interveniva la magistratura – ha spiegato Paola Frati, Professore Ordinario di Medicina Legale all’Università La Sapienza di Roma -. Il fine vita è un universo complesso che va affrontato in modo profondo. Per orientarsi serviva una “bussola” per questo il concetto chiave al quale si è deciso di fare riferimento è il concetto di qualità di vita che è estremamente soggettivo.
Ora una legge c’è. È la n.219 del 2017, è completa e chiara: non c’è opzione per il medico se scegliere se rispettare le DAT (disposizione anticipata di trattamento). Deve farlo e basta. Può rifiutarsi solo se le DAT sono incongrue con la situazione clinica del paziente. La Legge definisce, infatti, il carattere vincolante delle DAT e non viene prevista l’obiezione di coscienza, ma qualcosa di molto più profondo e legato alla professionalità del sanitario ovvero il rifiuto della prestazione se incongrua con l’evoluzione clinica del paziente e ribadisce il divieto di eutanasia proprio perché il punto di partenza è la percezione della qualità della vita. Inoltre valorizza una relazione medico-paziente basata su una alleanza terapeutica e fa rientrare la comunicazione nel tempo di cura al pari delle terapie.Io confido che la magistratura non vada a sgretolare una legge rispondente al comune sentire di una nazione. Il mio auspicio è che la legge Gelli e la legge 219 abbiano aperto una strada che sarebbe bene seguire”.
“Dal punto di vista della bioetica la Legge – ha sottolineato Luisa Borgia, componente del Comitato di Bioetica del Consiglio d’Europa -, analizzata alla luce dei documenti bioetici internazionali, ha luci e ombre, a partire dalla scelta del termine “disposizioni” che si discosta da tutti i documenti internazionali, in primis dalla Convenzione di Oviedo, in cui si parla di wishes dei pazienti, mai vincolanti per il medico e che non è indenne da ricadute proprio perché ha in sé il carattere di vincolo. L’impostazione che ne deriva è quindi di tipo contrattualistico e questo potrebbe aprire le porte alla medicina difensiva.
Altre criticità bioetiche, riguardano l’assenza di criteri per accertare che il dichiarante sia lucido e consapevole al momento delle DAT, una definizione della sofferenza non ben specificata quando si parla di sedazione profonda, l’attribuzione tout court di atti terapeutici alla nutrizione e all’idratazione artificiale anche quando, in particolare l’idratazione, hanno esclusivamente la finalità di accompagnare il paziente verso la morte con una valenza palliativa”.
“La Legge 219/2017 è un’ottima Legge – ha sottolineato Vittorio Fineschi, Professore Ordinario di Medicina Legale all’Università La Sapienza di Roma -, di grande crescita culturale, che non è sul fine vita ma sull’autodeterminazione e propone soluzioni applicative e di orientamento pragmatico. Rappresenta un cambiamento culturale che protegge sotto diversi punti di vista e che ha rispettato le linee concettuali di maggior consenso, oltre alla giurisprudenza e alle norme già previste dal Codice deontologico dei Medici. Esalta la professionalità del medico e di ogni esercente le professioni sanitarie e rappresenta una standardizzazione del rispetto dell’etica morale condivisa. Occorre, tuttavia, andare oltre anche attraverso una corretta informazione per i cittadini e una formazione per i Medici e per il personale sanitario sulla quale gli insegnamenti nei corsi di laurea in medicina hanno già previsto la specifica attenzione”.
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